di Marco Rubboli

I RACCONTI DI MALIA

A voi, temerari della ricerca e del tentativo, e a chiunque si sia mai imbarcato con ingegnose vele su mari terribili, a voi, ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo, a voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici… a voi racconterò ciò che io vidi.”

(F. Nietzsche)

 

Il capitano Casaro lanciò un ultimo sguardo intorno a sé prima di entrare nella taverna. Le case bianche, addossate le une alle altre, riflettevano un sole accecante dritto negli occhi, la folla vociante e multicolore riempiva i vicoli. Sopra i due forti gemelli che dominavano la città le verdi bandiere dello Sceriffo si agitavano imbizzarrite, le svelte torri bianche s’innalzavano contro l’azzurro feroce del cielo. Nuvole stracciate correvano nel vento. Invisibile da quel punto ma sempre presente, a poca distanza, c’era il mare. Si sentiva il suo respiro nell’aria, proveniente da ogni direzione. La piccola isola su cui la vecchia città sorgeva era Jehennah, poco discosta dalla costa del Continente Meridionale: l’unico porto dell’Impero Sarras a cui i mercanti stranieri potevano accedere per scambiare le loro merci.

Casaro entrò nella taverna. C’era poca luce, e un forte odore di spezie mischiato al fumo del narghilé. I tavoli erano addossati alle pareti, e nel centro si agitava una cattiva danzatrice, al suono di una melodia Sarras. Il capitano scese qualche gradino e subito gli si avvicinò un enorme guardiano col cranio rapato a rasoio, che in un incerto Maliano gli chiese di consegnare le armi. Senza dire una parola Casaro si slacciò la cintura con la daga e la passò all’uomo. Si sedette al tavolo che gli parve meno sudicio. Sbuffò e allungò le gambe. Conosceva abbastanza bene Jehennah, e alcune notizie che gli avevano riferito non lo tranquillizzavano affatto. Come faceva sempre quando era nervoso si passò un dito sulla cicatrice che gli attraversava la guancia destra, più e più volte, poi il suo sguardo si perse seguendo i movimenti della danzatrice. Fu risvegliato dal grasso taverniere Sarras che veniva a prendere l’ordinazione.

“Vino rosso di Xhios.”

“Per il vino straniero ho bisogno di vedere il lasciapassare, signore.”

“Già, dimenticavo. Eccolo.”

Il taverniere diede un’occhiata distratta al lasciapassare e se andò.

Maledicendo la legge che vietava ai Sarras di bere vino proveniente da paesi forestieri, il capitano si rimise il lasciapassare nel borsello.

Era metà pomeriggio, e Curieri sarebbe arrivato di lì a poco. Ma Casaro temeva le notizie che il mercante avrebbe portato. Per l’ennesima volta si guardò intorno. Un Sarras abbigliato sfarzosamente con vesti di seta e costosi stivali di pelle dormiva con la testa poggiata sul tavolo accanto a un narghilé spento. Casaro si chiese da quanto tempo fosse lì. Vicino a lui tre mercenari Hesperiani con la divisa della guarnigione dello Sceriffo giocavano a dadi e bevevano birra locale. Le monete che scommettevano risonavano sul tavolo. In un altro angolo quattro giovani di Jehennah ridacchiavano bevendo vino Sarras e ciucciando essenze esotiche dallo stesso narghilé. Uno stava raccontando agli altri un’avventura, forse piccante. Seduto nell’ombra un uomo alto e robusto con una corta barba rossiccia sorseggiava lentamente un boccale di birra. Finalmente arrivò il vino di Xhios, che il taverniere depositò sul tavolo insieme a una brocca di acqua fresca. Il capitano Casaro si riempì il bicchiere per metà di vino e per metà di acqua, all’uso Isolano. Lo trangugiò subito: aveva la gola riarsa per il vento secco del deserto che percuoteva l’isola. Poi sorseggiò con calma il secondo bicchiere. Era arrivato al quarto quando finalmente Andrea Curieri entrò nella taverna, parecchio in ritardo. Il giovane mercante era un po’ più alto di Casaro, atletico, con capelli castani corti, occhi scuri e profondi che avevano fatto crollare le difese di più di una donna. Vestiva in modo elegante, con stivali di pelle su calze a brache aderenti bianche, una larga cintura di cuoio con un pugnale dal fodero damascato e una camicia di seta con ampie maniche che lasciava intuire la muscolatura del torace. Normalmente Curieri era di carattere allegro ed entusiasta, ma ora il suo volto esprimeva solo preoccupazione e stizza. Scorse il capitano Casaro e, dopo aver consegnato il pugnale al guardiano, lo raggiunse al tavolo.

“Dammi un po’ di vino, Casaro, ho più sete di un cammello dopo la traversata del deserto. Porto brutte notizie, capitano.”

“Lo immaginavo, signor Curieri.”

Andrea alzò un sopracciglio:

“Sì?”

“Ho sentito dire che le carovane del deserto non sono arrivate, e che per quest’anno non arriveranno più.”

“Già,” sogghignò acido il mercante “e così niente mercato delle schiave. Quindi i vestiti che abbiamo portato da Malia non servono più, e i cosmetici di Kypria e Rodota anche meno. Perfino lo Sceriffo stesso ha acquistato pochissimo, prevedendo di non comprare nuove concubine.”

“Ma cos’è successo, si sa?”

“Pare che i predoni delle carovane siano caduti in trappola e siano stati decimati per mano di un qualche Re nero.”

“E le navi Imperiali?”

“Niente. Quest’anno i Dosthan non hanno fatto incursioni verso Est, quindi niente schiavette bionde da vendere ai Sarras. Da quel lato niente da sperare.”

“Per gli Dei del Mare, siamo veramente nei guai.”

Andrea Curieri tracannò un bicchiere di vino allungato.

“Ho venduto poche cose, ma almeno il carico di birra è andato via tutto. Sembra che di quella non ne abbiano mai abbastanza. Ma ciò non ci aiuta molto, se non troviamo da collocare il resto. Dovrò svendere, e ci toccherà ricominciare con carichi poveri, con poco margine di guadagno. Per le fiamme di Vulcano, non è possibile! Se ci fosse andata bene con questo carico saremmo entrati nel commercio vero, quello in cui si realizza sul serio. E invece mentre altri costruiscono fortune io sono qui a lottare per non dover vendere la nave. Avevo puntato tutto su questa spedizione.”

Altri due bicchieri di vino scomparvero nel gargarozzo del mercante, mentre il capitano Casaro tratteneva il fiato. Le parole di Curieri potevano significare che il mercante avrebbe venduto la nave per davvero? In questo caso Casaro poteva perdere il suo ingaggio. Poi finalmente Andrea Curieri parlò di nuovo.

“Oh, bene, pazienza. Svenderò tutta quella roba e ricomincerò da capo.”

Casaro non poté trattenere un sospiro di sollievo. Andrea Curieri era il miglior padrone che gli fosse capitato fino ad ora.

Un rumore alle spalle attirò la loro attenzione. Il tizio alto e grosso dalla barba rossa si era alzato dalla sedia e ora stava in piedi accanto a loro.

“Posso sedermi con voi?”

Gli occhi azzurri dell’uomo brillavano nella penombra, e solo adesso Casaro notò che sopra i pantaloni larghi alla foggia Sarras portava un pettorale di cuoio.

Curieri fissò il nuovo venuto negli occhi per un attimo, poi annuì e gli indicò una sedia vuota.

Appena quello si fu seduto il mercante ordinò altro vino, poi chiese:

“Il tuo nome?”

“Egon.”

“E poi?”

“E poi basta.” rispose secco il gigante.

Egon era un nome Dosthan, e quel tipo pareva un mercenario o un bravaccio.

“Capisco. E cos’hai da offrirci, Egon e basta?”

“Vediamo se ho capito bene la vostra situazione. Avete un carico di vesti femminili e cosmetici, usati di solito per rendere più appetibili le nuove schiave e alzare il loro prezzo. Ma quest’anno il mercato degli schiavi qui non si terrà, e per questo siete nei guai. Corretto?”

“E’ giusto, lo ammetto. E abbiamo anche parlato a voce troppo alta, pare. Dunque, Egon, qualche proposta?”

“Sì, certo, e molto vantaggiosa. Per me e per voi, ma soprattutto per voi.”

Un lampo passò negli occhi di Andrea Curieri, ma il gigante non andava avanti.

Dopo qualche istante il mercante Maliano scattò con impazienza.

“E allora? Questa proposta?”

Egon si batté una mano sul petto.

“Abile arciere e spadaccino, armamento completo proprio, con lunga esperienza di guerra come sergente, non soffre il mare, sa stare in sella, beve poco. Bene, non troppo, di solito. Ah, sa anche nuotare. Dovete per forza avere un posto per un uomo simile, vero? La proposta ve la farò dopo la firma del contratto.”

Il capitano Casaro lo guardò male e ridacchiò:

“E noi dovremmo credere a questa fantomatica soluzione? Senza garanzie? Scordatelo, amico.”

Intanto però la mente di Curieri era all’opera e quando il Dosthan fece per alzarsi borbottando lo trattenne, sotto lo sguardo stupito di Casaro.

“Va bene, accetto. Andiamo subito dal dottor Loredan.”

“Da chi?” chiese Egon.

“Dal notaio dei mercanti Maliani qui a Jehennah. Per il contratto. Coraggio Casaro, muoviamoci.”

Andrea si alzò, fece sonare tre monete sul bancone e ordinò al taverniere:

“Di’ al tuo uomo di riportarci le armi.”

Subito apparve il pelato, portando fra le braccia un mucchio di armi.

Casaro e Curieri recuperarono i rispettivi pugnali, tutto il resto era di Egon. Il guerriero, che sembrava continuamente sul punto di battere la testa contro le travi del soffitto, cinse la spada, si gettò lo scudo dietro la schiena, infilò un coltellaccio ricurvo nella cintura e afferrò arco e faretra, poi si girò verso di loro e disse:

“Possiamo andare.”

Uscirono, e furono accolti dal vento riarso che giungeva dal deserto e dalla luce di un sole già meno furioso. Si gettarono nella folla e discesero gli stretti vicoli verso il porto. Quando Egon rimase un po’ indietro, incastrato fra il carretto di un ambulante e una banda di bambini, il capitano Casaro riuscì a sussurrare a Curieri:

“Ma siete impazzito? Se c’è qualcosa che ora non ci serve è un soldo in più da pagare.”

Il mercante non lo degnò nemmeno di uno sguardo.

“So quello che faccio, Casaro. Ora zitto, che sta arrivando.”

Poco più tardi, in una zona della città più prospera e appena un po’ meno caotica, bussarono al portone di una grande casa. Si aprì uno spioncino attraverso cui furono scrutati da due occhi vivi di giaietto, quelli di una giovane schiava nera.

“Andrea Curieri, con due amici.” si annunciò il mercante “Devo parlare con il dottor Loredan.”

Il portone fu aperto da un uomo barbuto e i tre entrarono.

Si trovarono in un vasto cortile interno ornato da piante. Fiori esotici facevano da cornice a una fonte in cui un tritone gettava acqua su una Venere di marmo.

La schiava parlò in un Maliano incerto:

“Seguitemi, prego. Le stanze del dottor Loredan sono da questa parte.”

Lo schiavo barbuto richiuse la porta dietro di loro, con cautela.

La ragazza nera bussò a un battente e aprì un’altra schiavetta. Questa era una bionda, chiaramente originaria di qualche tribù dell’Est, rapita dal Continente Settentrionale.

“Il signor Curieri cercava il dottor Loredan.” spiegò la prima ragazza alla seconda.

“Prego, accomodatevi. Lo chiamo subito.” li invitò quest’ultima dopo averli accompagnati a un salottino. Li lasciò soli scappando di corsa, non prima di aver lanciato un’occhiata furtiva su Andrea Curieri. Quando furono soli il mercante sussurrò al capitano:

“In fondo ci serviva un uomo d’arme per comandare gli arcieri di scorta, Casaro. Ora siamo più tranquilli.”

“Ora siete molto più tranquilli.” specificò il gigantesco Dosthan battendo una mano sulla sua spada.

Così poteva sembrare, almeno a giudicare dall’aspetto del mercenario: Egon superava di tutta la testa il già alto Curieri. Ma Casaro pensava che un guerriero in più o in meno non potesse fare molta differenza. Ogni riflessione fu interrotta dall’arrivo del dottor Loredan, un autorevole personaggio in età. Le sue vesti di seta nera contrastavano con la barbetta a pizzo bianchissima. Il volto era scavato e rugoso ma i suoi occhi azzurri brillavano vivissimi.

I tre si alzarono per salutare il notaio, poi Curieri gli spiegò di cosa si trattava e scomparve con lui nel suo studio per redarre il contratto. Egon e Casaro rimasero fuori ad aspettare.

Il sole era già basso sull’orizzonte quando Curieri e Loredan riemersero dallo studio. Il contratto, completo di clausole e ceralacca, fu depositato davanti a Egon.

“Io ho già firmato” disse Curieri porgendo la penna d’oca al mercenario.

“Vorrei leggerlo, prima.”

“Ma certamente, fate pure con calma.” gli sorrise il notaio.

Poco dopo Egon chiese la penna.

“Così non ci fidiamo, vero? La conferma dell’incarico è vincolata al buon andamento della vendita del carico della nave. Ma io firmo tranquillo: non ho raccontato balle.”

Così disse e così fece, e i volti intorno a lui si rasserenarono.

Per ultimo firmò Casaro come testimone e dopo qualche convenevole i tre se ne andarono. Mentre raggiungevano una locanda del posto il sole tramontava dietro il palazzo dello Sceriffo, e le strade si svuotavano velocemente. Ormai c’erano in giro solo piccoli mercanti frettolosi che si portavano a casa la merce invenduta, e qualche ronda di sbirri, per lo più mercenari stranieri. Per tagliagole e prostitute era ancora presto.

“Al Grifone Aureo” diceva in caratteri Sarras l’insegna appesa sopra la porta. Era forse il meglio che Jehennah potesse offrire a un viaggiatore: buona cucina, niente risse, niente ladri e un letto pulito. Sulle locande Curieri non aveva mai risparmiato: “Preferisco spendere di più che trovarmi un coltello alla gola o strani animali addosso.” diceva.

Ovviamente solo l’armatore e il capitano dormivano a terra, i marinai si accontentavano delle loro cuccette a bordo. Però quella sera Curieri si girò verso Egon e gli fece cenno di seguirlo:

“Vieni, ti offro una cena e una notte senza pulci.”

Il mercenario non ci pensò due volte.

All’interno lampade a olio spandevano una luce viva, su ogni tavolo c’era una tovaglia candida e graziose schiavette servivano il cibo. Un piacere raro, pensò Casaro, che era abituato a ben altro. Anche gli avventori erano vestiti con decoro, e non puzzavano. Erano quasi tutti mercanti Maliani, Isolani o di Hesperios. C’era poi, in un angolo, la compagnia di un ambasciatore Isolano, di Attia, che era diretto a Dartessos, e non mancava un gruppo di ricchi Sarras. Due capitani Maliani con l’accento di Amasia giocavano a dadi con una coppia di ufficiali locali, e bestemmiavano tutti a voce alta.

Una giovane schiava dai lunghi capelli castani li accompagnò a un tavolo.

“Due caraffe di vino rosso…” fece Curieri.

“Tre!” lo interruppe Egon.

“Due.” ribadì il mercante “E che sia vino Maliano, non roba locale. E da mangiare.”

“Per me una zuppa di pesce.” disse Casaro.

Egon ci riflettè sopra un attimo.

“E per me un bel…” e poi disse una parola in Sarras mai sentita prima dagli altri due.

“Cosa sarebbe?” chiese il mercante, incuriosito.

Il gigante Dosthan sogghignò: “E’ una specie di focaccia o pizza, grande così!” e mimò con le mani una circonferenza pari a quella di un grosso scudo.

“Tutta ricoperta da una strato di cipolle cotte non so come, con sopra un pollo tagliato in due.”

“Vuoi stare leggero, vedo!” rise Andrea “Anche per me quello che ha detto lui, comunque si chiami.”

Dopo che ebbero mangiato e bevuto abbondantemente ed ebbero trasformato la tavola in un campo di battaglia devastato, si tirarono indietro. Casaro non riuscì a soffocare un rutto, che per fortuna gli uscì sommesso.

“Allora, mio nuovo capo degli arcieri” disse Andrea Curieri con la voce più bassa che Egon potesse udire “adesso che hai in tasca il tuo bel contratto, vuoi dirmi qual’è la magica soluzione a tutti i nostri problemi?”

“No, meglio di no.” rispose Egon “In questa città ogni persona, animale e anche – direi quasi – ogni oggetto ascolta tutto e fa la spia. Domattina, quando saremo salpati.”

“Dunque bisogna lasciare Jehennah?”

“Sì ma non è lontano, il posto.”

“E va bene, mantieni pure il segreto, posso tenere a freno la curiosità fino a domani mattina. Non ci perderò il sonno. Almeno spero.”

“Io invece perderei volentieri qualche ora di sonno.” sogghignò Egon seguendo con lo sguardo la schiena nuda di una delle schiave. Poi poggiò i gomiti sul tavolo per avvicinarsi all’orecchio del mercante e chiese: “Non è che, per caso, è possibile… con quelle ragazze…”

Andrea Curieri sorrise:

“In tutte le locande di questo livello esiste la possibilità, e le ragazze sono belle, pulite e accondiscendenti. Ma costano un occhio della testa, bello mio. Per questa sera non se ne parla, scordatene. Ma se riusciremo a vendere bene il carico te lo prometto. Una sera soltanto, s’intende.”

“Vi farò vendere quel carico a un prezzo mai visto, per Thorr!”

Quando venne la ragazza dai capelli castani a sparecchiare, Casaro la trattenne per un braccio e le mise in mano una monetina. Lei gli sorrise e lo ringraziò prima di andare.

Solo dopo un istante il capitano incrociò lo sguardo degli altri due.

“Cosa c’è da guardare?”

“Niente ma mi chiedevo…” cominciò Curieri.

“Non è di certo abbastanza per fartela, e allora perché le hai dato quella moneta?” chiese Egon.

Casaro grugnì, scontroso.

“Non mi va quello che fanno con le tribù dell’Est i tuoi compatrioti, Egon. E nemmeno le razzie dei predoni al di là del deserto. Che catturino la gente per farne degli schiavi mi dà fastidio. Ma guardali! Sono uguali a noi, perché diamine dovrebbero essere venduti e comprati come le bestie da soma? Se potessi farei cessare questo traffico, con le buone o con le cattive.”

“Buono a sapersi” rise Curieri “così se ti eleggeranno Imperatore Dosthan sapremo regolarci. Non ti facevo così sensibile, Casaro!”

“Il capitano vuole ancora cambiare il mondo. Non sei così vecchio, allora.” lo sfotté Egon. Anche lui no. Questo era troppo.

“Tu stai zitto, crucco di merda, che sei l’ultimo arrivato. Magari dopo che Curieri ti avrà riempito di doni io, da parte mia, ti farò fare un bel giro di chiglia.”

 

Continua qui:

IL MERCATO FANTASMA – Parte II

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