“Gli ultimi eroi dell’arena” è un romanzo breve ambientato al tempo della caduta dell’Impero Mitoien, edito da Accademia Nazionale di Scherma. Si segue la storia di due gladiatori, Glaucus e Felitia: lui arruolato in una delle ultime Legioni che cercano di frenare l’invasione dei barbari Dosthan, lei impegnata nell’ultima giornata di giochi dell’anfiteatro della grande città di Selenia, poco prima dell’arrivo alle porte del nemico. Nonostante sia un’opera ambientata nel mondo di fantasia di Malia, la gladiatura viene descritta in modo accurato, con tutte le classi di combattenti, l’armamento e il modo di combattere dei gladiatori Romani storici. Infatti dato che l’editore è una grande Istituzione del mondo della scherma, non poteva mancare un’Appendice Tecnica sulla vera gladiatura,
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(Illustrazione di Andrea Camaggi”
“Uno schizzo di sangue cadde quasi sui piedi di Felitia. La gladiatrice fece un balzo indietro per non sporcarsi i calzari, così il liquido rosso andò a bagnare la sabbia dell’anfiteatro. Un boato risuonò sugli spalti, e il corpo della donna reagì con un fremito di eccitazione che le fece rizzare i capelli sulla nuca. Il ruggito del pubblico era per lei come il vino per un ubriacone, e si chiese come avrebbe fatto a vivere il resto della sua vita senza quelle emozioni. Il pubblico scandiva il nome del retiarius Isolano Drakos, che aveva ferito il suo avversario con un colpo da maestro. Anche il Console si era alzato in piedi, e applaudiva. Drakos correva intorno e si pavoneggiava agitando la rete come la ruota di un pavone, mentre Vitreus il secutor pisciava sangue dalla spalla sinistra. Vitreus aveva la pelle scura, e non si distingueva bene quanto fosse larga e profonda la lesione.
Drakos lo aveva attaccato sul lato destro, costringendolo a girarsi, e poi con un balzo felino si era gettato a sinistra sferrando una stoccata col tridente. L’arma aveva strisciato sul bordo dello scudo del combattente nero e gli aveva aperto la spalla.
La gladiatrice girò la testa per osservare meglio il ferito attraverso la grata dell’elmo. Sentiva il familiare rumore del suo proprio respiro reso metallico dalle pareti interne dell’elmo.
“Bah. Solo un graffio, tutto sommato. Drakos non dovrebbe esultare troppo.” giudicò con occhio esperto. Incrociò lo sguardo di Edurne, l’avversaria contro cui avrebbe combattuto fra poco, e intuì che anche lei stava pensando la stessa cosa.
“Vecchia volpe d’una lesbica Hesperiana, lo ha capito anche lei. Non avevo dubbi: non le sfugge niente. Fra un po’ ci divertiamo, io e lei.”
Vide gli occhi di Edurne brillare d’una luce d’intesa e immaginò i denti bianchi della provocatrix schiudersi in un ghigno inquietante. Non poteva scorgerlo, ovviamente: l’elmo d’acciaio le avvolgeva il capo e le nascondeva il viso. Ma poteva immaginarlo. La conosceva da una vita, d’altro canto, ed era da una vita che loro due si scambiavano coltellate.
Tornò a osservare i due uomini che combattevano.
L’arbitro si era avvicinato, aveva dato un’occhiata alla spalla del nero e aveva dato il permesso di andare avanti. Ora la folla se ne stava zitta, ammutolita dalla tensione. Gli spettatori avevano annusato il sangue, ma il verdetto finale non era stato ancora emesso.
Vitreus, che era uno tosto e non avrebbe rinunciato tanto facilmente a una vittoria, aveva ripreso ad avanzare verso il retiarius.
Drakos invece si teneva alla larga. Non è mai una brutta cosa che l’avversario perda sangue. A poco a poco gli sbollisce la rabbia, e col sangue perde anche le forze e il calore. Invece nei primi momenti dopo aver subito una ferita gli uomini diventano ancora più pericolosi, per il desiderio innato di vendetta. Gli uomini e anche le donne. Felitia ne aveva viste tante, entro quelle mura, e non era una che potesse commettere delle ingenuità come insuperbirsi per un graffio…
Però quel balletto non poteva durare molto, altrimenti la gente sulle gradinate si sarebbe incazzata. Volevano azione, mica tattica, quelli là.
E infatti Drakos, che tutto era meno che un pivello, rallentò e permise a Vitreus di avvicinarsi. Solo per fermare la sua avanzata a suon di botte sullo scudo. Le tre punte del tridente non permettevano a Vitreus di balzare di lato né a destra né a sinistra, bloccandolo lì dov’era.
Il guerriero dalla pelle scura però colse l’opportunità di gettarsi sotto la lunga arma del suo avversario, inclinando lo scudo in avanti e cacciandosi a testa bassa nel varco. Drakos si avvide subito del pericolo e scattò via, cercando di tirare indietro l’arma e recuperarla. Ma Vitreus lo incalzava senza dargli tregua: aveva trovato la sua occasione e non intendeva rinunciarvi.
Difficile correre indietro tanto veloce quanto un uomo può correre avanti. Uno alto come Vitreus, poi… Drakos era in difficoltà. O sembrava esserlo. L’Isolano scattò di lato e gettò la rete fra le gambe del secutor. Vitreus si impigliò e cadde in avanti. Rotolò e perse il grande scudo, su cui faceva bella mostra di sé una fenice scarlatta. Fu subito in piedi, ma gli restava solo la daga. Drakos gli fu addosso brandendo il tridente, senza curarsi di recuperare la rete.
Felitia si sentiva in bocca la fastidiosa polvere dell’arena, insieme al gusto amaro della tensione. Avrebbe volentieri sputato in terra, anche se non era un gesto elegante. Ma indossava un elmo chiuso, dannazione!
Adesso era Drakos ad avanzare, subissando l’avversario di finte e colpi di punta. Il secutor li deviava con l’arma oppure con il braccio destro protetto dalla manica corazzata, ma era costretto a cedere terreno.
Poi il braccio di Vitreus finì tra due punte del tridente e si bloccò lì in mezzo. Drakos cercò di liberare l’arma, Vitreus tirava indietro, ma non c’era nulla da fare. Erano incastrati entrambi. Il gladiatore nero, che era più grosso, iniziò a spingere indietro l’Isolano.
“Che vuol fare, per gli Dei?” sussurrò Edurne.
Felitia alzò le spalle.
Poi capì.
Il secutor portò avanti lil braccio sinistro e passò di mano la daga, preparandosi a colpire.
Ma Drakos non era meno svelto: sganciò la mano destra dal tridente, tenendolo con la sola sinistra, e diede mano anche lui alla sua daga.
Mentre Vitreus portava il colpo il retiarius gli ferì il braccio sinistro, che era privo di protezioni. L’arma del secutor cadde in terra assieme al suo sangue. Questa volta la ferita era profonda. Vitreus cadde in ginocchio e alzò il dito indice per chiedere la grazia. Si era giocato il tutto per tutto con una mossa ardita e aveva perso. Da valoroso.
Le grida degli spettatori riepirono l’arena:
“Mitte! Mitte! Mitte!”
Risparmialo.
E ci mancherebbe altro. Quei due erano stati uno più bravo dell’altro. E comunque era da molto tempo che la grazia non veniva negata. Non c’erano uomini da sprecare, nemmeno per gli spettacoli più grandiosi. Coi tempi che correvano…
Drakos diede la mano a Vitreus per farlo rialzare, poi fece di corsetta il giro dell’anfiteatro sventolando la bandierina azzurra del vincitore, mentre il secutor usciva di scena a testa bassa.
Trenta scontri, ventidue vittorie. No, adesso erano trentuno scontri e ventitre vittorie per Drakos. Un mostro. La quotazione di Vitreus invece era leggermente scesa. Ma che importava ormai? Tanto era finita. Era tutto finito, non solo i giochi dell’arena. Felitia avrebbe solo voluto che Glaucus fosse lì.
“Se domani finirà il mondo, vorrei passare con te l’ultimo giorno.” pensò. Ma non era possibile. Lui era lontano, chissà dove. E chissà se era ancora vivo. In realtà era probabile che giacesse straziato su un qualche campo di battaglia, in preda ai corvi…
Edurne fece un passo avanti. Felitia intuì, più che vedere, che la sua snella figura si era spostata.
“Tocca a noi adesso. Sei pronta, preziosa?” disse l’Hesperiana.
“Più pronta di te, stronzetta. E che Caronte se ne stia lontano da entrambe.”
(Bozzetto preparatorio di Andrea Camaggi)
La freccia colse l’elmo di Glaucus sul lato della calotta e rimbalzò via. Lui si gettò a terra subito ma il rumore, come quello di una campana, lo rintronò. Arrianus si girò verso di lui e gli sorrise.
“Ti è andata bene. Una mezza spanna più a destra e ti si piantava nel cervello.”
“Grazie, molto incoraggiante.” gli rispose il gladiatore.
Arrianus non riuscì a impedirsi una risatina nervosa.
“Tanto adesso o domani cosa cambia? Siamo tutti morti che camminano, qui. Quasi quasi è meglio farla finita subito.”
Glaucus sputò per terra.
“Non è il quando che conta ma il come. Una freccia in testa non va bene per un leone dell’arena. Almeno vorrei tirare le cuoia nella mischia, tirandomi dietro un certo numero di barbari.”
Il soldato si strinse nelle spalle, si sollevò appena, tese l’arco e scoccò una freccia, senza guardare se avesse colpito qualcuno o no.
“Bah, hai voglia, tanto per ognuno che ne ammazziamo le montagne ne partoriscono altri tre. Puoi essere bravo quanto vuoi con la spada. Non serve a niente.”
“Serve a me. Per andarmene con un po’ di soddisfazione, almeno.”
“Perché, non ne hai avute abbastanza, di soddisfazioni con una lama in mano? Sei stato un grande dell’arena, le folle ti hanno acclamato. E non solo da noi a Selenia ma sei stato su al Nord ad Alesia, e hai combattuto perfino nella grande Arena di Fortia, nella capitale. C’ero anch’io sulle gradinate ad acclamarti, che credi? Ora si deve morire e basta, l’Imperatore ci ha preceduto e non c’è più niente da fare. Tutto quanto finirà spazzato via.”
Glaucus scosse la testa.
“Una cosa ho imparato, nell’arena. Non è finita finché non è finita. Non si può mai dire.”
I barbari avanzavano verso di loro. Risalivano la collina in silenzio, adesso, cercando di avvicinarsi un po’ alla volta.
Glaucus rotolò allontanandosi da Arrianus, si cosparse l’elmo di fango e sollevò la testa appena al di sopra del margine del vallo per scrutare la situazione. C’erano tre orsacci vestiti di pelli che strisciavano avanti pancia a terra. Quella era gente delle tribù più selvagge, venute dal lontano settentrione con Wulfstan. Non erano abili e pericolosi come i mercenari del Grossrhinland… però con quelli ti potevi arrendere. Invece era meglio farsi ammazzare piuttosto che cadere vivo nelle mani di questi qui. Il gladiatore prese un profondo respiro poi tese l’arco, si alzò in ginocchio e scoccò. Non guardò cosa fosse successo ma si gettò subito a faccia in giù. Un urlo belluino gli comunicò la buona notizia. Preso. Si spostò di nuovo, e sbirciò. Due dei barbari si erano alzati e stavano trascinando indietro il compagno ferito, che non sembrava messo bene. Sanguinava copiosamente e la freccia di Glaucus gli spuntava per metà dal fianco. L’altra metà stava conficcata dentro il suo corpo, e doveva fargli parecchio male. Un dardo colse uno dei due alla coscia, facendo crollare al suolo tutto il terzetto. Qualcuno gridò chiamandoli, dal basso. Una voce piena d’angoscia, forse un padre o un fratello. Glaucus non era il tipo da farsi intenerire, e tirò di nuovo. Ne trafisse uno alla schiena. Quello finì a faccia in giù nel fango e smise di muoversi. Gli altri due tentavano di strisciare verso i loro compatrioti. Il barbaro ferito alla coscia andava più spedito ma quello con la freccia di Glaucus nella pancia si muoveva appena, e si lamentava. Il gladiatore si spostò di nuovo, afferrò un’altra freccia, la incoccò con calma dando le spalle al vallo. Sapeva che avrebbe potuto scatenare la rabbia dei Dosthan con quel gesto, ma tanto erano secoli che erano arrabbiati comunque. E comunque era furioso anche lui. Quella feccia nordica era venuta da così lontano per devastare il suo paese. Incendiavano le città, saccheggiavano i templi e abbattevano le opere degli antenati del suo popolo. E uccidevano, come se fosse un gioco. Strano pensiero, per un gladiatore. Lui aveva passato la vita a brandire armi contro i suoi colleghi e amici, a ferirli per denaro e ambizione. Per gioco, anche, in effetti: non poteva negare che per lui fosse un divertimento. Un divertimento pericoloso naturalmente, di quelli che ti fanno correre il sangue più rapido. Ma prima di arruolarsi nell’armata Imperiale aveva ucciso qualcuno solo un paio di volte, sempre per errore. Non era mai intenzionale ma poteva succedere, nell’arena, faceva parte delle regole. Tutti lo sapevano. Invece i Dosthan ammazzavano per il gusto di farlo, senza stare a guardare se le vittime fossero bambini indifesi, venerabili anziani, malati. Sfogavano il livore di generazioni su tutti quelli che capitavano sotto le loro sozze mani.
Tese l’arco, si girò e alzò la testa il meno possibile: quanto bastava per tirare e non un dito di più. Il dardo si conficcò alla base della nuca di quello ferito alla gamba. Il corpaccione del barbaro fu scosso da uno spasimo, cadde nel fango e poi non si mosse più.
Glaucus si voltò verso Arrianus, che annuì con una smorfia e se ne uscì con un fischio di ammirazione. Ma ogni altro rumore fu annullato dalle grida dei Dosthan, un clamore che si levò sempre più alto.
Glaucus corse verso l’amico tenendosi basso.
“Hai fatto una bella frittata, gladiatore.”
“Eh… mi è venuta così. Ma la freccia che aveva nella gamba, se stato tu?”
“Mmmh mmmh.” annuì l’uomo strizzandogli un occhio. “Anch’io sono capace di fare qualche danno ogni tanto.”
“ Attento che adesso arrivano. Ne hai di frecce?”
Il legionario si batté un colpetto sulla faretra.
“Bella piena.”
Seguì il rumore sordo delle frecce nemiche che si conficcavano nella terra battuta del vallo, o gli passavano sopra.
E poi i passi pesanti e affrettati di tanta, tanta gente.
In risposta ai lanci e alla carica dei barbari, una serie di palle infuocate provenienti dalle retrovie sorvolò il campo.
“Non risparmiare le frecce!” gridò Glaucus.
“Non vedo perché dovrei farlo, non ne conosco un uso migliore!” ribattè Arrianus.
Si ersero in piedi, pronti a tirare. Si parò davanti a loro la visione di un’onda di gente impellicciata e tatuata armata di asce e spade che arrancava in salita, verso di loro. Molti giacevano già a terra, altri bruciavano e, agitandosi, avvolgevano nelle fiamme anche i guerrieri vicini.
Lungo tutto il vallo i legionari erano usciti allo scoperto e tiravano senza posa. I primi a essere presi di mira erano stati gli arcieri nemici, scarsi di numero, e adesso i Mitoien potevano bersagliare quasi indisturbati il resto degli assalitori. I Dosthan però non cedevano e venivano avanti. Presto sarebbero arrivati a portata di giavellotto.”
(Illustrazione di E. R.)
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