Mario per prima cosa sentì un brivido corrergli su per la nuca, poi udì il rumore sordo della corda e il sibilo del dardo. Si abbassò, d’istinto, e qualcosa volò al di sopra del suo capo perdendosi tra le frasche. Bertrando, alla sua destra, scattò nascondendosi dietro un albero. Mario si stese a terra e rotolò via, dall’altra parte. Più lontano, sul lato sinistro, Graziano si stava acquattando fra i cespugli. Mario trattenne il respiro e sbirciò tra le fronde. Non si vedeva nessuno. Nemmeno una stupida pianta che si muovesse. Dannazione.
Strisciò lentamente all’indietro, cercando di non fare né troppo rumore né troppo poco.
Se riusciva ad attirarseli dietro, Bertrando e Graziano potevano prenderli in un tiro incrociato.
Ecco, sì, qualcuno veniva avanti a dargli la caccia. Molto lento, molto prudente.
Il volto di Bertrando coi suoi baffetti color paglia sbucò da dietro il tronco e gli fece cenno che aveva inteso il suo proposito.
“Vieni, vieni, vieni avanti. Sono qui, sono la tua preda.”
Giocare a fare la preda poteva essere molto pericoloso, ma in quel momento non riusciva a pensare a un’alternativa. Un rumore a sinistra e Graziano andò giù.
“Maledizione, mi hanno beccato!” gridò “Sono ferito a una gamba!” Un’altra corda che veniva rilasciata, un altro sibilo. Con un grugnito Graziano smise di parlare. Quella non aveva colpito una gamba.
Bertrando gli segnalò con un dito di continuare a indietreggiare. Mario annuì e riprese a strisciare via, sempre tenendo la freccia incoccata.
Adesso l’inseguitore doveva essere quasi arrivato di fianco a Bertrando: la trappola poteva scattare. Mario vide l’arciere biondo che si sporgeva per tirare, poi un gran fruscio tra i cespugli. Bertrando fu colpito in pieno al petto e si accasciò. Morto.
Bene, adesso sono proprio nella merda, penso. Sono rimasto solo. In quell’istante intravide un pezzo di tessuto marrone nella selva. Tese l’arco senza alzarsi, tenendolo orizzontale, e scoccò. Niente. Non l’aveva preso. Silenzio. Come aveva fatto a non colpirlo, dove diamine era sparito quello lì? Pareva uno spettro. Qualcosa… una brutta sensazione… si girò di lato e lui era lì, in piedi di fianco a lui. Era tardi per incoccare un altro dardo…
Il sergente Lupo si allungò e lo toccò con la punta di una freccia “da gioco”. Disse, calmo:
“Sei morto anche tu, è finita.”
A quel punto anche Graziano e Bertrando spuntarono dai cespugli. Il primo rideva, il secondo no.
“Così non vale, però, sergente!” sbottò l’arciere biondo “Eravamo in netto vantaggio, tre contro uno…”
“Ma quell’uno ero io.” ammise Lupo.
“Eh, e vi sembra corretto? Avremmo vinto noi.”
“Guarda che non è un gioco, Bertrando, e vi può ben capitare di incontrare uno come me, in guerra. Non sono sono mica l’unico a sapersi muovere nel bosco, sai? E allora cosa farete? E’ meglio che vi abituiate adesso, credimi.”
Uno a uno anche gli altri “morti” vennero fuori dai recessi del bosco dove erano rimasti a giacere sul terreno.
Intanto che aspettavano gli ultimi ritardatari il sergente si rassettò spazzandosi via foglie e terra dalla blusa.
Mario lo imitò.
“Avete recuperato tutte le frecce da gioco?”
“Io ne ho persa una, sergente. Ho cercato dappertutto, ma niente da fare.” annunciò uno dell’altra squadra.
“Anch’io” ammise Bertrando.
“Aiutateli a cercare. Altrimenti chi le ha perse questa sera ne farà due nuove.”
Tutti si tuffarono di nuovo fra la vegetazione, curvi, come tanti cani da caccia o maiali da tartufi. Una delle frecce fu ritrovata, quella di Bertrando però non apparve.
“Va bene, andiamo. Tu dopo cena passa da me, che ti do tutto il necessario.”
L’arciere biondo coi baffetti annuì.
“Signorsì sergente Lupo.”
“Per oggi abbiamo finito. Si va verso casa.”
Un sospiro di sollievo eruppe da molti petti.
Erano partiti la mattina prima dell’alba dagli alloggi a Campofiorito e in circa un’ora di marcia avevano raggiunto la foresta più vicina che fosse grande abbastanza per l’addestramento. Lì il sergente li aveva divisi in due squadre: una da tredici e una da dodici, di cui però faceva parte lui, e per tutto il giorno si erano affrontati un numero di volte che Mario non riusciva nemmeno a ricordare. Altri giorni Lupo li aveva costretti a marciare dal sorgere del sole al tramonto, altre volte ancora si erano esercitati ai paglioni e con le spade di legno, rimediando parecchi lividi. Non c’erano giubbe imbottite per tutti, e quelle che c’erano non erano abbastanza grosse, ma Lupo non voleva che smorzassero i colpi. “Il nemico non cercherà di colpirvi piano!” diceva. Oppure dovevano correre dalla cittadella fino al punto dove il fiume Campofiorito formava un’ansa sabbiosa nella sua corsa verso il lago di Alesia, a circa un’ora di distanza, e lì facevano a gara a chi passava prima dall’altra parte a nuoto. La maggior parte degli altri soldati, invece, per lo più non si muoveva dal Campo di Marte. Un paio di volte passando si era imbattuto nella compagnia di palvesari dove avevano messo gli altri che, come lui, avevano fatto parte della scorta armata del mercante Piero Briganti, e li aveva salutati da lontano. Una volta credeva anche di aver intravisto il Griso che entrava in una taverna, ma non era certo che fosse proprio lui e comunque era troppo lontano per chiamarlo e lui non poteva uscire dai ranghi senza rimediare una bastonata impartita dalla dura mano del sergente Lupo.
Tutto ciò andava avanti ormai da una dozzina di giorni, e Mario cominciava a farci il callo. Non poteva dire che gli dispiacesse: per quanto fosse una vita dura sentiva che stava imparando molto. Il suo corpo, già provato ma anche temprato dal lungo peregrinare sull’Altopiano, si stava irrobustendo e al contempo diventata di giorno in giorno più agile.
Nemmeno gli altri si lamentavano troppo: gli arcieri di Asproburrone erano una sorte di corpo scelto fra le truppe con armi da lancio del Ducato, e farne parte era visto come un vero onore. Tutti parlavano bene del Barone Arnolfo e dei suoi uomini. Sono cose che riempiono d’orgoglio un soldato, e lo rendono più solido e deciso o, per così dire, più “affilato”.
Quando quella sera arrivarono nei pressi della cittadella, c’era una gran confusione. Bene confusione c’era sempre, da quando una seconda città di tende militari era sorta tutt’attorno alle mura, che non potevano contenere tutti gli armati che erano giunti da ogni angolo del Feudo e pure dai Ducati vicini. C’erano uomini di Verdefiume, Ripalince, Cittàstella e perfino qualche primo contingente da Selenia, che alla sera si litigavano ogni panca e ogni sedia di ogni taverna di Campofiorito. Quella sera era diverso, però. L’eccitazione si percepiva nell’aria, densa e acuta. Il sergente rimase indifferente in modo ostentato e marciò dritto verso gli alloggi senza nemmeno girare la testa di qua o di là, però Mario colse parecchie voci lungo la strada,e si scambiò occhiate e parole con quelli vicini a lui nella colonna. Pareva che fosse in arrivo il Re in persona con tutte le forze di Alesia, dei Feudi a Nord del fiume Dathus, della Costa dell’Alba e delle Montagne Bianche. Un’armata immensa. Il Duca Invitto sarebbe uscito dalla cittadella per incontrare il monarca ed entro pochi giorni, nei quali sarebbero giunti gli ultimi contingenti, il giovane sovrano Tiberio IV Alesiade avrebbe tenuto un gran discorso davanti a tutto l’esercito, ci sarebbe stato un torneo d’arme, un banchetto principesco, una gran festa e infine il giorno successivo sarebbe iniziata la marcia verso la vittoria.
Le notizie volavano di bocca in bocca, correvano lungo i vicoli del borgo e si insinuavano su per le mura dei palazzi nobiliari e del castello Ducale stesso passando per le labbra, le lingue e le orecchie di mercanti, militari, osti e servi domestici.
Le baracche degli arcieri erano piene fino al soffitto di tutte quelle chiacchiere, e non vi era modo di ignorarle per quanto il sergente Lupo, un uomo severo, le disdegnasse.
A cena vi fu spesso un silenzio imbarazzato, a tavola. Tutti gli uomini desideravano parlare delle novità ma nessuno osava farlo, se Lupo non dava in qualche modo il segnale che era lecito farlo, e lui non ne aveva nessuna intenzione. Il sergente finì in fretta il suo pane e la sua zuppa, ingurgitò mezzo bicchiere di vino rosso e scomparve oltre la soglia senza dire nulla.
Poco dopo riapparve con una sacchetto di tessuto in mano, che lanciò verso Bertrando. L’arciere lo prese al volo.
“Ecco, qui c’è la colla, l’asta di legno e tutto il materiale che serve. Domattina come prima cosa voglio vedere la freccia finita.”
“Certo, sergente! Non mancherò!” esclamò Bertrando.
Fu Graziano che osò dire qualcosa:
“Sergente, avete udito per caso che il Re…”
“Non ci riguarda, Graziano. Andate a dormire. Domani mattina verrà qui il Barone e ci parlerà. Siate preparati a qualunque evenienza.”
Detto ciò, girò sui tacchi e se ne andò, lasciando tutti a bocca asciutta.
“Qui c’è qualcosa sotto.” pensò Mario. Guardandosi intorno vide che anche tutti gli altri lo pensavano. Nessuno si azzardò a dirlo a voce alta.
Più tardi però, nella camerata, le chiacchiere sul torneo e il banchetto, e le donne che ci sarebbero state in giro infuriarono, sia pure a bassa voce. Si favoleggiava sulla bellezza della moglie del Duca di Verdefiume, e su tante altre leggendarie Dame altolocate, ma si scherzava anche sulle più abbordabili ragazze da taverna di questo e quel villaggio che non si sarebbero di certo fatte scappare il grande evento e sarebbero venute in massa a curiosare. Anche il celebre tenutario di cortigiane d’alto boro Astore Tagliaferro non poteva mancare, e c’era da scommettere che si sarebbe presentato in pompa magna con tutta la sua parafernalia di bravacci, saltimbanchi e soprattutto le eleganti e desideratissime “allegre damigelle”… anche se quelle lì non erano certo alla portata della borsa di un arciere, e nemmeno di un sergente o un capitano. Merce solo per tasche nobili… Il cibo, poi, e i vini che sarebbero stati serviti… qualche briciola di tutto ciò sarebbe pur arrivata anche all’umile soldataglia, in qualche modo, ci si poteva scommettere!
Mario se ne stava sdraiato a guardare Bertrando che lavorava alla freccia, imprecando quando si incollava le dita, e ad ascoltare incantato i discorsi sguaiati e sgrammaticati dei suoi commilitoni. Non gli dava fastidio, al contrario. Più stava con loro più si rendeva conto che tutto ciò che aveva imparato durante gli studi non lo rendeva diverso né in alcun modo superiore a quegli uomini. Certo, conosceva molte cose che loro ignoravano, ma era vero anche il contrario. Sapeva cavarsela bene quanto loro nella foresta, però non sapeva edificare in quattro e quattr’otto una capanna di legno, né cucire, né cucinare altrettanto bene con mezzi di fortuna, edificare un muro, ferrare un cavallo e tante altre cose pratiche e di mestiere che invece tutti o alcuni degli arcieri conoscevano a menadito fin da quando erano piccoli.
Il fatto di conoscere la scrittura, la lingua Mitoien e aver letto qualche buon libro non alterava il fatto che come loro doveva bere, mangiare, si stancava, aveva paura e la vinceva, si faceva male se veniva colpito, doveva cagare e pisciare ogni tanto e, per gli Dei, anche se faceva meno baccano al riguardo e istintivamente evitava la volgarità, anche a lui le donne piacevano quanto a loro. Insomma, era ben di più quello che lo accomunava a quella massa di ignorantoni rispetto a ciò che lo separava da loro.
“Sono loro che non sono poi così male o sono io che mi sto ingaglioffendo?” si chiese, perplesso.
Con quella domanda sospesa nella mente finì con l’addormentarsi così com’era. A malapena si rese conto che Graziano, premuroso, gli stendeva sopra una coperta.
Furono tutti svegliati all’alba dalle grida del sergente Lupo.
“In piedi, brutti pigroni, forza! Tiratevi su! Su, che arriva il Barone Arnolfo, volete farvi trovare ancora a letto? O volete fare come quel principino della favola, che si svegliò dopo cent’anni? Ah, ma vi sveglio io a suon di calci, se serve!”
In un “ave” furono tutti svegli e all’opera. Il Barone? Era da qualche giorno che non si faceva vivo. Memore dei suoi vaghi sospetti della sera prima Mario non solo si vestì e si equipaggiò con arco, faretra, spada e pugnale, ma preparò anche lo zaino per una eventuale partenza. Sentiva che qualcosa bolliva in pentola, e non doveva essere per forza qualcosa di buono.
Si ritrovarono tutti schierati nel piazzale davanti alle baracche, non solo il gruppo di ventiquattro arcieri comandati dal sergente Lupo, ma anche gli altri tre contingenti al servizio del Barone Arnolfo, cento uomini in totale. Più il Barone, i suoi due scudieri e la sua scorta personale di cinque uomini d’arme, naturalmente.
Arnolfo era montato sul suo destriero, un poderoso morello, e indossava la sua armatura completa, di piastre, tirata a lucido come usava nel Ducato di Campofiorito. Con lui c’era tutto il suo seguito di armati, al completo. Gli scudieri, i figli di amici suoi della nobiltà, montavano due agili corsieri mentre gli uomini d’arme erano a piedi, e tutti sfoggiavano armature di cuoio pesante a scaglie.
Inquadrato nello schieramento con l’arco in pugno, Mario si scambiò un’occhiata coi suoi amici. Bertrando fece una strana smorfia, che quasi li fece ridere, e Graziano sussurrò:
“Qui succede qualcosa…”
Un’occhiataccia del sergente li fece ammutolire all’istante.
Il Barone alzò una mano per chiedere silenzio e iniziò a parlare:
“Arcieri di Asproburrone! Non vi farò lunghi discorsi. Sapete bene che noi siamo arcieri speciali, diversi da tutti gli altri: non siamo destinati a stare nelle schiere come belle statuine a vuotare le faretre tirando a caso nel mucchio, ma il nostro forte è andare per colline e foreste, esplorarle, liberarle dai nemici se possibile e soprattutto trovare dove si trova il nemico e riferirlo all’armata. Questo è il nostro ruolo in ogni guerra che ha coinvolto il Ducato, questo è ciò che sappiamo fare, e lo sappiamo fare come gli Dei comandano! E’ vero o no?”
“E’ vero, Signore!” risposero tutti in coro.
“Bene, oggi non ci si chiede altro che fare questo. Stasera o domani arriverà il grosso dell’esercito del Re, con Tiberio IV in persona al comando delle truppe, ma per allora noi saremo già parecchio lontano, ad aprire la strada per l’avanzata che verrà, a coprire i fianchi, pronti ad evitare che i nostri cadano in un’imboscata o che forze nemiche possano piombare addosso l’armata arrivando da strade non battute. Questo non potrà avvenire, perché ci saremo noi, a battere quelle strade! Quindi siate lieti, perché potremo dimostrare il nostro valore, e se gli Dei lo vorranno l’autunno che viene lo passeremo meritatamente nelle sale dei nostri nemici! Chi siamo noi?”
“Gli arcieri di Asproburrone!”
“E ci sono vie che non possiamo percorrere?”
“No, Signore!”
“Elelai!” gridò Arnolfo, facendo impennare il destriero
“Elelai! Per Asproburrone, per Campofiorito, per Malia!” risposero i suoi arcieri a tutta voce.
“ Fra un’ora vi voglio pronti alla partenza. I sergenti distribuiranno viveri per dieci giorni, ognuno porta la sua razione con sé, niente salmerie. Ci procureremo altro cibo per via. Signori, all’opera!”
Gli arcieri, ancora entusiasmati dal bel discorso del Barone, ruppero le righe e si precipitarono a prepararsi.
Mario, che non aveva fretta perché aveva già tutto pronto, rimase un momento a osservare la scena. Anche Graziano esitava.
“Che c’è, Graziano, non sei convinto? Si parte!”
L’uomo aggrottò le sopracciglia, si grattò il testone massiccio e sputò per terra.
“Ecco… Però a me sarebbe piaciuto andare a quel banchetto…”
Per il racconto successivo:
PONTE MUGGHIANTE – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)
Per l’inizio della saga di Mario:
MARIO L’AVVENTURIERO – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)
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