LE CRONACHE DEI PRETORIANI NERI

Per l’inizio del racconto: La setta della Foresta Nera – Parte I e II – Per la Corona d’Acciaio (lacoronadacciaio.it)

4 – Il racconto di Mathos: fuga dalla Foresta Nera

 

Ci muoviamo piuttosto rapidi, con due Cheruschi fra i meno malconci che tentano di cancellare le tracce del carro spazzando la neve con rami di albero usati a mo’ di scope. A un primo sguardo i segni delle ruote non si notano, ma un vero cacciatore le vedrebbe. Io le vedo.

Ezio è ancora poco più che catatonico, in preda allo sconforto e al senso di colpa, così adesso il nostro contubernium ha preso il controllo della situazione e gli ordini li dà Publio, il nostro decurione. Maximus, dal canto suo, spinge davanti a sé il sacerdote, che non abbiamo il tempo di interrogare come si deve e dal canto suo tace e zoppica avanti, perché non può fare altro.

Non manca più molto all’alba, ma anche quando le dita rosate di Eos si alzano in cielo decidiamo di continuare a muoverci. Però i dannati corni che ci danno la caccia sono dappertutto, troppo vicini, e con la luce il pericolo di essere visti diventa davvero grande. Quindi carichiamo su due muli le provviste, mandiamo via gli altri cavalli e abbandoniamo il carro nascondendolo in una forra, tra le fronde. Ci muoviamo lenti, cauti, evitando ogni sentiero, sempre infrattati nella vegetazione più folta, di macchia in macchia. Ascoltiamo, osserviamo, solo poi ci spostiamo.

Marciare è un rischio, ma stare fermi sarebbe un rischio maggiore: prima o poi qualcuno troverà le nostre tracce e le seguirà, e allora noi dovremo essere già altrove o ce li troveremo addosso. Per tutto il giorno continuiamo così e, reduci come siamo da un brutto scontro e una notte insonne a camminare senza posa, la cosa per quei poveracci dei Cheruschi si fa pesante. Noi siamo abituati, addestrati, ma loro sono normali soldatini di provincia, va già bene se gli hanno fatto fare un po’ di marce e di scherma coi rudis, e non solo l’esercizio al palo. La tensione continua li divora, hanno volti segnati ed espressioni fra l’ebete e lo spaurito. Brutto, essere prede coi cacciatori alle calcagna, molto brutto. In verità nemmeno noi ci stiamo divertendo, eh, sia chiaro. Finalmente il sole cala e torna la notte. Per fortuna infatti è inverno, e proprio al solstizio, e i dì in quel periodo durano molto poco, specialmente quassù al nord. Ora il buio è il nostro alleato migliore. Non possiamo riposare, anche se siamo allo stremo, e andiamo avanti a camminare, un passo dopo l’altro. Il suono degli inseguitori non ci dà requie. Si sentono anche dei cani latrare, ora. Il culto, che deve dominare su interi villaggi, anzi, su tutta la zona, non si può permettere di farci andar via vivi, altrimenti sa bene che la spietata vendetta dell’Imperatore li coglierà tutti. Stanno giocando a carte scoperte. D’altro canto sono a casa loro e sanno fino a dove possono spingersi senza suscitare sospetti.

Stiamo procedendo facendoci strada nella selva quando il rumore di inseguitori vicinissimi ci fa gelare. Cani abbaiano, uomini gridano, giusto alle nostre spalle. E infine, eccoli! Sbucano di corsa dalla vegetazione che abbiamo appena attraversato: sono cinque, e uno tiene al guinzaglio due cani grossi e feroci. Colpisco un cultista alla gola con una freccia, che scocco nel girarmi. Il secondo scatena contro di noi i suoi cani, un attimo prima di essere abbattuto dal giavellotto di uno dei nostri soldati. Il terzo si gira fa per fuggire, ma viene stordito da due pietre lanciate da Publio e dal Britanno. Il quarto ci lancia una scure, che rimbalza senza danni sullo scudo di Vitruvio. Il quinto, infine, armeggia per afferrare un corno da caccia. Se riesce a suonarlo richiamerà qui tutti i gruppi che ci stanno cercando. Potrei colpirlo facilmente con una freccia, da quella distanza, ma devo vedermela coi cani. Il più feroce mi balza addosso. Maximus, che ha affidato il sacerdote a uno dei Cheruschi, gli piazza davanti al muso il suo grande scutum, e il segugio ci sbatte il muso. Ne approfitto per tirare, il tizio con il corno va giù con la mia freccia in corpo. Intanto il primo animale cerca di girare attorno all’ostacolo insormontabile dello scudo di Maximus per assalirmi, ma l’Illirico lo tiene a bada. L’altro cane fa la stessa cosa, però resta a distanza: è più magro ma più furbo, si vede. Mentre mi copre con lo scudo Maximus scaglia un giavellotto. Il lancio è micidiale: coglie il cultista che ha lanciato l’accetta in pieno petto, lo alza da terra e lo pianta nell’albero dietro di lui a diversi passi di distanza, conficcandosi nel tronco in profondità e lasciando il Germano appeso lì a tirare le cuoia con gli occhi spalancati dal terrore.

L’ultimo nemico in piedi guarda spaurito, poi si fa forza e risponde lanciando la propria scure al Pretoriano. L’arma tintinna sfiorando l’elmo del grosso Illirico e sparisce in un mucchio di neve alle sue spalle.

Intanto io ne approfitto per tirare fuori della carne secca e, restando al sicuro dietro allo scutum di Maximus, la porgo ai due segugi. Il primo la ignora e balza alla gola del mio protettore, che ha già estratto la spada. La alza e la cala sulla bestia, che si abbatte quasi tranciata in due. Il secondo cane, quello furbo, si guarda incontro. Si rende conto di essere rimasto solo. Così afferra il pezzo di carne secca dalle mie mani e prende la fuga nel folto del bosco. L’ultimo Germano si gira e tenta di darsi alla macchia, ma due giavellotti lo colgono alla schiena, uno dei quali scagliato da Ezio,  così finisce nella neve a faccia in giù. Sembra finita, ma non lo è: quello col corno, che avevo colpito con una freccia, è caduto ma non è morto. Si alza quanto può, porta lo strumento alle labbra e suona una lunga nota lugubre. Maledizione! Tutto per niente. I nostri Cheruschi gli saltano addosso subito e lo finiscono, ma il danno è fatto. Il suono che ha emesso aveva un tono diverso da quelli uditi finora, e quasi immediatamente altri corni rispondono. In lontananza, si alza una subitanea caciara di suoni che si inseguono e convergono verso di noi. Il figlio di puttana è riuscito a comunicare quel che doveva.

Ci guardiamo l’un l’altro, incerti, e capisco che tocca a me. Afferro il corno. Mi giro verso Publio e gli chiedo:

“In che direzione vuoi andare?”

“Verso ovest, via di qui.”

“Bene. Voi mettetevi in marcia io invece mi muovo verso nord e li attiro di là, poi vi raggiungo.”

Vitruvio fa capolino dietro al decurione italico:

“Sicuro? Ce la fai, con quella ferita?”

Annuisco.

“Non vi preoccupate, non faccio l’eroe. Li porto per un po’ sulla via sbagliata e torno da voi.”

Publio mi sorride e guarda Vitruvio:

“Se c’è qualcuno che può ritrovarci in queste foreste buie è Mathos. E poi non abbiamo molte alternative. Se vado io mi perdo di sicuro, e anche tu.”

Il medico non trova nulla da ridire, così non perdo tempo e scatto via. Bene, scatto… per quel che posso: diciamo che parto di corsa leggera. Vado avanti forse la metà di un’ora, fra qualche difficoltà dovuta al terreno difficile, poi suono il corno imitando il verso emesso dal nostro inseguitore, che suppongo significasse “li abbiamo trovati, sono qui”.

Dopo un’ora suono di nuovo e mi sposto ancora a nord. Mi seguono: sento che convergono verso la mia posizione, sempre più vicini, per cui devo spostarmi sempre, e di gran carriera. Dopo un ultimo richiamo getto via quella cosa e mi dirigo a sud-ovest, cercando di passare meno possibile sulla neve per non lasciare tracce. Ogni volta che ho suonato le squadre di ricerca del nemico hanno risposto al mio richiamo, confermando che stavano cadendo nel mio inganno… ma anche che la foresta era piena di inseguitori bramosi di distruggerci.

Calcolo all’incirca quanta strada possano aver fatto i miei compari e traccio una linea per intercettarli. La spalla mi fa male, ma riesco a ignorarlo. E’ un dolore sordo, costante, come un brusio incessante di quelli che dopo un po’ non senti più, tipo quando sei in un campo fiorito dove si danno da fare le api e tu riesci a dormire pacifico nonostante tutto quel ronzio che ti circonda.

Arrivo dove secondo i miei calcoli avrei dovuto trovarli, e ovviamente non ci sono: nessuno può essere davvero così preciso. Però ci sono appena passati: sapendo cosa cercare trovo le loro tracce. Publio non cambierà direzione fino a che non li avrò raggiunti, a meno che non vi sia costretto. Così mi affretto verso occidente, e dopo non molto tempo eccoli. Quasi mi tirano un giavellotto quando mi paleso. Nervosetti.

Ci riabbracciamo, e proseguiamo. I Cheruschi superstiti mi guardano come se fossi Zeus Soter, il Salvatore. Oppure Orfeo tornato dall’Ade, non so. Fanno quasi tenerezza, anche se sono solo dei crucchi mezzo barbari.

Andiamo avanti tutta la notte, la seconda senza dormire, e poi anche per tutto il giorno dopo, sempre fuori da ogni pista, sempre accorti e però sempre più stremati. C’è chi cammina quasi con gli occhi chiusi, per cui dobbiamo tenerli aperti noialtri anche per loro.

Nel pomeriggio il concerto dei nostri persecutori si fa a poco a poco più remoto, e finalmente riusciamo a respirare un po’ più liberamente.

Quando torna a farsi buio decidiamo che è finalmente arrivata l’ora di fare un riposino. Altrimenti crolliamo tutti. Troviamo una forra nascosta piena di tronchi caduti e rami secchi, dove camuffiamo bene la tenda, appendendola a un albero morto e ricoprendola di fronde. Sono soddisfatto del lavoro: da fuori è del tutto invisibile, devi quasi toccarla per realizzare che si tratta di una tenda.

Ci concediamo anche di mangiare qualcosa da seduti, finalmente. Le provviste però scarseggiano. Siamo in nove, fra Pretoriani e Cheruschi, e nove bocche che devono riempire nove stomaci di nove uomini belli grossi ne ingurgitano, di roba.

Stabiliamo dei turni di guardia per precauzione, ma io ne vengo dispensato a causa della ferita e forse anche un po’ come premio per il mio intervento di depistaggio del nemico. Almeno, in quello squarcio rosso che ogni tanto tenta ancora di sanguinare, non c’è traccia di infezione: Vitruvio ha fatto un buon lavoro e con un po’ di fortuna e assistenza da parte degli Dei comincio a pensare di poterla raccontare, un giorno, questa strana storia.

Mi versi da bere, Lucrezio, che ho la gola secca, a forza di parlare? Ah, molto meglio. Non è male, questo vinello, chissà da dove viene. Non certo da quest’isola battuta dai venti e dalle piogge, dannazione a lei e a tutti i posti freddi.

Dov’ero rimasto? Ah, sì, già.

Insomma, e fu sera e fu mattina, senza altre sorprese durante la nottata, che ne avevamo avute già più che a sufficienza anche per più di una sola vita. Epperò non erano certo finite, perché quando ci svegliamo sentiamo un’aria diversa. L’egizio, che era di guardia, ci chiama fuori con voce sconvolta. Ha gli occhi sbarrati. Fuori, all’improvviso, non è più inverno ma autunno. La neve per terra d’incanto è svanita. L’aria profuma di pioggia e funghi e gli alberi, sempreverdi a parte, hanno le foglie rosse e gialle e arancioni che è una festa per gli occhi. C’è una brezza leggera, fresca, molto diversa dal vento gelido del solstizio. Stesi a terra, riversi, ci sono legionari antichi caduti. Portano le loricae segmentatae che si usavano al tempo di Augusto e dei primi Imperatori di Roma. Accanto a loro ci sono dei Germani caduti, anche loro vestiti come si usava da quelle parti tanto tempo fa. Mi strofino gli occhi, pensando che forse la ferita ha fatto infezione, invece, e sto delirando. Ma anche gli altri vedono le stesse cose, e non si tratta di un sogno. Un aquilifero caduto, con la schiena poggiata a un albero, ancora sostiene un’aquila. Publio e Vitruvio si avvicinano. Porta il numero XVII.

“Teutoburgo. Siamo a Teutoburgo, nel luogo della battaglia: dove Lucio Cedicio sconfisse le tribù germaniche.” sussurra Publio.

“La vittoria di Teutoburgo, sì. Davvero questo può essere un luogo sacro, allora.” gli risponde il nostro medicus.

Ci aggiriamo per quella zona magica pieni di meraviglia. Io, che per natura vado sempre in esplorazione un po’ più in là degli altri, a un certo punto faccio un passo di troppo e mi ritrovo nella neve e nel gelo. Mi giro, e tutto è svanito: l’autunno, i caduti di Teutoburgo, i miei compagni, la tenda. Faccio un passo indietro e a svanire è l’inverno, vento compreso. Sono di nuovo nell’incanto.

Branoc mi sorride:

“Io là fuori non ci tornerei.”

Scuoto la testa:

“No, nemmeno io. Qui si sta molto meglio. E poi qui quelli non ci trovano, se proprio non ci capitano in mezzo.”

Ed ecco che una luce dorata si palesa lentamente a mezz’aria, e dalla luce una figura di luce, in forma di un giovane perfetto, dall’espressione dolce e rilassata, che impugna un arco d’oro. Lui emana una luce senza macchia, senza ombra e senza la ferocia del solleone, la luce di un altrove che quasi ti fa piangere per la voglia di tornarci, perché hai la sensazione di esserci stato, anche se non sai quando nè come. Nè sai dirti perché mai stai provando quelle sensazioni, così profonde e dolci e laceranti.

E l’essere parla. E le sue parole sono musica celestiale, anche se non sta affatto cantando.

“Benvenuti. Benvenuti in questo luogo sacro al destino di Roma, che ha aperto alla Città Eterna le porte del nord.”

Nessuno riesce a rispondere, presi come siamo dal fulgore di quell’apparizione e da una commozione inspiegabile, ma, uno dopo l’altro, ci inginocchiamo.

“Riposate, per oggi, riprendete le forze: vi è concessa una pausa dai vostri affanni. Domani lascerete questo luogo pronti per nuove battaglie, ma oggi vi è donata la pace, figli di Roma. Valete.”

Così come era apparso, un po’ alla volta, si fonde nella luce, poi la luce va scemando e scompare.

“Apollo.” mormora Branoc, annuendo “Apollo ci ha donato tregua e riposo e guarigione. Approfittiamone, amici miei, è un dono raro.”

Non scorderò quella giornata anche se vivessi mille anni. Tutto era leggero, lieto senza affanno, sommesso. Cogliemmo funghi e more di rovo, e castagne, e riposammo in quella luce fatata. La mia ferita pizzicava, come in un’effervescenza di lenta guarigione, mentre i bordi lacerati della carne della spalla si sgonfiavano un po’ alla volta e si avvicinavano, come bramosi di richiudersi. Nessuno ardiva parlare a voce alta, o fare battute sconce come è solito udirsi fra noi soldati, ma tutti erano pervasi da un’euforia lieve e rispettosa, venata come di un miele malinconico.

Ora, io non so dire se davvero mi sia stato concesso il privilegio di vedere il Dio del Sole coi miei occhi mortali, oppure se sia stato un inganno di qualche spirito silvestre, o ancora se ci siamo sognati tutto a causa di qualche droga presente nelle provviste o nelle acque. La mia Dea d’elezione è la sorella di Apollo, la fiera e feroce Diana cacciatrice, legata alla Luna e dal carattere ben diverso dal possente e dorato fratello, ma ciò che posso affermare è che tutti quanti da allora non abbiamo mai più cessato di pensarci, e di provare un grande rimpianto per quelle ore e quella luce dolcissima e quasi triste al tempo stesso.

Non so nemmeno dire se senza quella pausa saremmo riusciti a sopportare le prove che ancora ci attendevano prima della fine. Perché, in verità, le nostre vicissitudini erano tutt’altro che terminate.

Quello che alla fine terminò, perché tutte le cose belle e buone hanno un termine, tranne l’Impero di Roma, fu l’incantesimo. Alla sera l’aria cambiò e diventò di nuovo fiera e spietatamente gelata, e di nuovo anche lì nella nostra radura cadde la neve. I corpi di Romani e Germani antichi erano svaniti di colpo, compresa la sacra aquila di quella Legione che si sacrificò fino all’ultimo uomo per la vittoria, e che ogni cronaca ricorda in lettere d’oro. Ci rinchiudemmo sotto la tenda riscaldandoci con la vicinanza dei corpi, compreso quello dell’unico mulo superstite che ancora ci trascinavamo dietro, e attendemmo ancora una volta l’arrivo della luce. Sul giorno successivo non ho molto da riportare, tranne che continuammo a spostarci verso occidente sperando di raggiungere luoghi più civilizzati, sempre tentando di restare lontano dalle bande di cultisti che sapevamo percorrere ancora quelle lande in cerca di noi. Trovammo un accampamento abbandonato, usato dai nostri persecutori la sera precedente, e dalle tracce riuscii a capire che si erano diretti a ovest. Fu per questo che deviammo leggermente verso sud-est, per non incrociarli. Alla sera di nuovo trovammo un luogo appropriato dove montare la tenda, un piccola radura isolata. Ma quella volta la nottata non passò tranquilla. Niente affatto.

Era il turno di guardia di Maximus, e il caso volle che dovesse farlo proprio con quel Siegfried che gli aveva rubato il vanto dell’uccisione del lupo mannaro. Tutti noialtri invece dormivamo della grossa. A Maximus pare di aver udito un rumore, ma il Cherusco invece non si è accorto di niente. Il buon Illirico però non è convinto, e sveglia Branoc che doveva fare il turno successivo con un altro dei soldati.

Ora, Branoc non è proprio un cacciatore però, se ancora non si fosse capito, è dotato di una strana sensibilità e un rapporto speciale con la natura. E subito lui, che peraltro – sarà un caso, o forse no – proprio quando Maximus l’ha svegliato stava avendo un incubo, si accorge che c’è qualcosa che non va. Un silenzio troppo profondo nel bosco, in prossimità del campo. Il Britanno insomma decide che sveglierà tutti. In quella tre guerrieri sbucano dal bosco e si mettono a tirare frecce sulle sentinelle che stavano accanto al fuoco. Viene dato l’allarme, e mentre i soldati si radunano al centro della radura formando un muro di scudi per fermare le frecce, alle loro spalle altri due Germani escono dai loro nascondigli, e corrono proprio verso il nostro mulo. Niente mulo, niente tenda e niente cibo: Branoc lascia gli altri e corre a intercettare quei due. Dalla tenda intanto esce anche Publio con un paio di Cheruschi, che vanno a dar mano forte al Britanno per salvare il malcapitato mulo. Non un istante troppo presto: fermano l’assalto proprio davanti alla povera bestia da soma, che non capisce cosa stia accadendo e raglia disperata. Intanto al centro una freccia fortunata – o sfortunata, a seconda del punto di vista – coglie il povero Siegfried dritto in un occhio. Quello cade al suolo e nessuno lo aiuta dato che tutti lo danno per spacciato. Solo Vitruvio si avvede che è ancora vivo e, al riparo degli scudi dei compagni, gli porta soccorso. In realtà la freccia lo aveva colto di sbieco e invece che penetrargli nel cervello si era limitata a squarciargli il bulbo oculare. Il medicus non riesce a salvargli l’occhio, ma gli estrarre la freccia e lo benda come meglio riesce in mezzo a quella baraonda.

Io, invece che uscire al centro del campo, ero sgattaiolato fuori dalla tenda da dietro sollevando il telo, con l’intenzione di aggirare il gruppo più numeroso. Beh per Diana, numeroso si fa per dire: intendo dire quei tre disgraziati che tiravano dal limitare del bosco. Insomma striscio fuori come un serpente, raggiungo i primi alberi e mi tiro su per prendere alle spalle quelli là, quando mi imbatto in un altro nemico, che stava tentando di fare una manovra simile alla mia: si aggirava nel bosco per raggiungere la tenda da dietro e prendere alle spalle Branoc e i suoi. Ci troviamo faccia a faccia all’improvviso! Per fortuna reagisco per primo e gli pianto un freccia fra il petto e la spalla. Lui cade all’indietro, finendo in un cespuglio di pungitopo. Impreca e tenta di rialzarsi, ma gli salto sopra e finisce con la gola aperta dal mio coltello. Riprendo la mia manovra, cauto, fino a portarmi sul fianco dei tre. Ne vedo uno di profilo, miro con calma e lo stendo lì, ad agonizzare sul prato. Maximus approfitta dell’attimo di smarrimento dei due rimasti, che cessano di tirare, e lancia la carica. Li spazzano via in un istante, poi accorriamo tutti verso i due mancati assassini di muli. Uno finisce male lì per lì. L’altro, circondato, si getta in ginocchio con le mani dietro alla nuca in atto di resa. Maximus lo strapazza un po’, e lui ammette che in zona ci sono altre due squadre che ci cercano, e altre ancora non molto lontano. Confessa che per rendere il loro rito più efficace gli Dei ancestrali della Foresta Nera avevano richiesto sangue di Pretoriani Neri sull’altare. Peccato che né Ezio né nessuno di noialtri abbia perso la vita al tempio, ma solo quei poveracci dei soldati Cheruschi. Il crucco fa pure lo sbruffone, e afferma che comunque diversi Pretoriani Neri cadranno, perché non riusciremo mai a lasciare vivi la foresta. Due ceffoni dell’Illirico lo mettono zitto, e finisce legato come un salame a far compagnia al sacerdote, che ci trasciniamo ancora dietro fin dal tempio maledetto.

Proviamo a dormire ancora un po’ prima che giunga l’alba, nonostante l’agitazione, ma dopo un paio d’ore dei rumori sospetti ci svegliano di nuovo: sono proprio i due prigionieri, che sono riusciti a sciogliersi l’un l’altro dalle corde e tentano la fuga. Un giavellotto nella schiena pone fine alla corsa e alla vita del guerriero, mentre il sacerdote si gela sul posto e si lascia legare di nuovo. Finalmente una luce si diffonde da oriente, e ci alziamo per riprendere la marcia. Tanto nessuno è riuscito a chiudere occhio dopo l’imboscata, per cui ti puoi immaginare quanto siamo tranquilli e riposati al mattino. I nervi sono a fior di pelle e la giornata di riposo a Teutoburgo pare ormai un ricordo lontano e sfumato, irreale. Alcuni cominciano a chiedersi se sia davvero avvenuto, o se si possa essere trattato di uno di quei sogni a occhi aperti che si accompagnano all’incessante veglia e a una marcia che pare infinita. Ma io so che era vero, quanto è vero che mi chiamo Mathos.

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