Non sarò certo io a fare una recensione de “I tre moschettieri” di Dumas: sinceramente mi pare abbastanza ridicolo che qualcuno si senta in diritto di mettere su Amazon o altri siti la sua personale recensione di classici come l’Iliade (magari “troppi combattimenti, eccessivamente violento”), l’Orlando Furioso (“storia confusa e con troppi personaggi”) o Moby Dick (“un eccesso di nomenclatura di navi e cetacei che spegne l’afflato epico”, e simili scempiaggini). C’è un divertente video del mio acuto concittadino Roberto Mercadini in proposito, guardatelo se avete voglia di farvi una risata.
Quindi, lungi dal voler “recensire” Dumas, volevo parlarvi brevemente del mio rapporto con questo romanzo fondamentale per l’avventura classica e la letteratura in genere, di cui sono stato sempre appassionato. Ciò più a livello personale che come studioso di scherma storica, giacché il mio interesse a livello marziale è più incentrato sulla scherma “di punta e taglio” dei secoli precedenti, e il 1625 è già oltre la soglia del mio periodo di studio preferito, sia pure non di molto. Dumas poi, che pure tirava di scherma, non ha mai approfondito lo studio di come si combattesse in quegli anni ed è sempre abbastanza vago sulla dinamica dei combattimenti. Ma tutto ciò, come dicevo, è marginale.
Come potete vedere dalla foto, fra l’altro, ho letto il libro anche in francese, anzi è stato il primo libro che ho letto in quella bella lingua, contemporaneamente a “La communication politique aujourd’hui” che era il testo previsto dall’esame di francese alla Facoltà di Scienze Politiche in quei tempi lontani. L’avevo già letto in italiano, ovviamente, molti anni prima di allora, nell’età in cui continuavo abusivamente fino a tarda notte all’insaputa dei genitori le mie letture di Salgari, Verne, Dumas appunto, e altri ancora.
Infine l’ho riletto ancora una volta con grande gusto al momento di accingermi alla scrittura di “Il contagio di Meung”, romanzo breve ora in uscita che inaugura una mia personale versione delle avventure dei moschettieri (che si tinge di fantasy e horror a causa di un episodio di “sliding doors” che ha a che fare con certe leggende mediterranee), senza tradire – spero – lo spirito dell’originale e soprattutto dei suoi immortali personaggi. Ho cercato di avvicinarmi al mondo di Dumas con tanto affetto e tanto rispetto, e quel pizzico di ironia e spensieratezza che non è affatto alieno ai romanzi originali.
D’altro canto cosa si può desiderare di più che lavorare su icone come D’Artagnan, il giovane provinciale povero, promettente e spericolato per eccellenza, in cerca di fortuna e che aspira a entrare nei moschettieri? Fra l’altro è per questo, per chi non lo sapesse, che il romanzo si chiama “I tre moschettieri” anche se i protagonisti sono quattro: D’Artagnan è solo una recluta! Anche gli altri tre, i veri moschettieri, sono splendidi archetipi. Porthos incarna alla perfezione il “guerriero orso” del mito indoeuropeo: grosso e forzuto, gran mangiatore, generoso e sempre allegro. Aramis è invece l’elegante seduttore nato, agile e sempre affascinante, nel suo caso l’archetipo è reso più interessante e contraddittorio da una fede religiosa combattuta ma profonda che lo farà aderire addirittura al sacerdozio. Infine Athos, il più esperto del gruppo, il più nobile e “adulto”: un’anima tormentata piena di dignità, dal passato misterioso, su cui gli altri si appoggiano e a cui si ispirano.
Dall’altra parte, troviamo degli antagonisti del tutto all’altezza: il mefistofelico Cardinale Richelieu, l’arrogante spadaccino Rochefort e soprattutto il personaggio più pieno di ambiguo fascino: l’incantatrice e insidiosa Milady, che accomuna in sé l’attrazione pure della bellezza e l’attrattiva repulsione del pericolo.
Al di là dei duelli, delle fughe mirabolanti, degli intrighi di corte, che forniscono il loro essenziale pizzico di pepe, quel che davvero resta a fine lettura è la nostalgia platonica per l’allegria incosciente dei quattro protagonisti (i moschettieri si trovano sempre a corto di denari ma se qualcuno di loro si trova a disporre di una qualsiasi somma subito si sente in dovere di spenderla in banchetti per tutto il gruppo), e ancora di più per l’amicizia e la fedeltà adamantina che li lega tra loro al di là di ogni causa per cui combattere, al di là di ogni contingenza della vita e del destino, e che è la gemma più preziosa che ha donato Dumas all’umanità con questo grande romanzo. Quindi, ancora una volta, che risuoni il grido di battaglia dei tre baldi moschettieri più un cadetto di Guascogna:
“Uno per tutti, tutti per uno!”