di
Caterina Franciosi
Freya sollevò il capo, sfidando la brezza fredda che conosceva fin troppo bene, e sorrise. Si avvicinò al parapetto della nave-drago e serrò le mani attorno al legno, vecchio ma ancora fermo e robusto.
Era a casa.
Riconobbe ogni angolo del fiordo, con le pietre che parevano essere state intagliate dal dio Thorr in persona, e poi, più oltre, il punto di attracco e il villaggio. Si sporse appena, inspirando l’aria che già sapeva un poco di neve, e ammirò i flutti che si infrangevano contro i fianchi dell’imbarcazione.
«Impaziente di rientrare?»
Freya si voltò. Suo padre, il massiccio Re Thorstein di Snorrisheim, era dietro di lei, le braccia incrociate sul petto.
«È stato un viaggio più lungo del solito» rispose Freya, lasciando che il vento dispettoso le si infilasse sotto i baveri del mantello e giocasse con le ciocche dei suoi capelli.
«Ma anche molto più redditizio» replicò Thorstein, esplodendo in una risata soddisfatta.
Freya non poté fare a meno di annuire. Suo padre non aveva torto: grazie a quel viaggio, alle loro ultime razzie, il villaggio avrebbe potuto affrontare l’inverno senza problemi e senza preoccupazioni. Erano stati fortunati: le terre Dosthan e quelle delle Isole delle Brine si erano rivelate più ricche degli anni precedenti e loro, i figli dei Popoli del Mare, erano riusciti a stivare più di quanto avessero mai fatto in seguito a qualsiasi altra incursione.
Razziatori, li chiamavano.
Ladri e assassini erano gli appellativi più frequenti con i quali venivano riconosciuti.
Eppure nessuno eccetto loro aveva sperimentato sulla propria pelle cosa volesse dire vivere a Nord delle terre conosciute, dove le estati erano magnanime ma sempre troppo brevi rispetto ai gelidi inverni, dove la morsa del ghiaccio si stringeva impietosa ovunque e non esitava a gettare nel regno dei morti chiunque non fosse abbastanza forte da resistergli.
«Questa sera ringrazieremo gli Dei per la loro benevolenza e per essere stati al nostro fianco in ogni battaglia» continuò Thorstein vedendo che la figlia continuava a rimanere assorta nella contemplazione del fiordo. «Faremo scorrere coppe di idromele in onore di Odhinn e innalzeremo preghiere per la sua generosità, affinché abbia cura dei nostri compagni caduti.»
«Il Valhalla li avrà certamente accolti» annuì Freya.
«Senza dubbio!»
Thorstein coprì la spalla della figlia con la mano e la strinse, poi si allontanò per tornare a parlare con i suoi uomini. Tutti avevano lo stesso sguardo esultante negli occhi. Freya gioì del loro entusiasmo poiché era lo stesso che provava nel proprio cuore, unito al desiderio di rivedere i cari che erano rimasti ad attenderla al villaggio. Eppure… Freya tornò a fissare il mare che tanto amava e ben conosceva. Qualcosa si celava nel profondo del suo animo, una strana sensazione di attesa che le si era insinuata dentro non appena i fiordi di Snorrisheim avevano cominciato a prendere forma in lontananza. Non avrebbe saputo descriverla, tuttavia sentiva che non era piacevole. L’agitava, la rendeva vagamente inquieta, come se, in qualche modo, la stesse avvisando di stare pronta per l’arrivo di qualcuno o qualcosa di inaspettato. Ma lei avrebbe saputo come gestire ogni pericolo: suo padre le permetteva di maneggiare le armi fin da quando era bambina e, non appena i tempi erano stati maturi, le aveva anche concesso di seguirlo nei viaggi per mare con gli altri uomini. Nessuno aveva osato contestare il volere del Re, soprattutto dopo aver visto la giovanissima Principessa in azione sui campi di battaglia: ferro e sangue erano stati fin da subito i suoi alleati più fidati. Avevano intimorito i nemici e le avevano fatto guadagnare il rispetto incondizionato degli uomini di suo padre.
Tutti, dal primo all’ultimo, nessuno escluso.
E lei era stata consacrata al rango di skjaldmær senza esitazione alcuna.
Dunque, chiunque fosse stato così pazzo e sconsiderato da mettersi sulla sua strada avrebbe trovato la giusta punizione.